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Antropologia

Dalla Natura alla Cultura - Principi di Antropologia Biologica e Culturale - Origini della società e della cultura umana

autores
Chiarelli

33,00 €

  • publish date Septiembre 2003
  • ISBN 978-88-299-1658-0
  • Code Piccin 0319982

Questa ponderosa opera di Brunetto Chiarelli non è solo un libro destinato ad arricchire la nostra biblioteca. A questo merito non da poco, visto l’effimero del molto che oggi si scrive, si viene a sommare il suo valore di definitivo chiarimento in ordine alla dicotomia: natura vs. cultura, che da Platone in poi ha perimetrato il pensiero occidentale. Rispetto alla Verschwendung scientifica che ha afflitto e ancora affligge ampi settori delle scienze cosiddette umane, il sistematico e coerente discorso di Chiarelli è tranciante. È la dimostrazione in termini non questionabili che natura e cultura sono due aspetti indissociabili del continuum della realtà umana. La supposta antinomia tra natura-non umano vs. cultura-umano risulta pertanto definitivamente obliterata. Senza per questo contestarne il valore in sede analitica, quando non assunta quale fatto oggettivo ma ideologico. Chiarelli infatti fornisce ogni possibile prova che, se queste due realtà fossero realmente antitetiche, non potrebbe esistere l’Uomo che è contemporaneamente natura e cultura. Valga una semplice considerazione.

La disposizione a parlare è per noi, da Aristotele a Chomsky, la frontiera fra l’umano e il non umano.

Ora, proviamo a risolvere questo dilemma. Se la disposizione a parlare è considerata un fatto innato, cioè di natura, come può produrre la cultura che sarebbe il suo opposto? Al contrario, se la riteniamo un carattere acquisito, cioè di cultura, come spiegarne l’universalità? Secondo Lévi-Strauss, cui non sfugge che “l’Uomo è un essere biologico e contemporaneamente un individuo sociale”, l’opposizione tra natura e cultura consisterebbe nel fatto “che tutto ciò che è universale, presso l’Uomo, appartiene all’ordine della natura ed è caratterizzato dalla spontaneità, e che tutto ciò che è assoggettato ad una norma appartiene alla cultura e presenta gli attributi del relativo e del particolare” (Lévi-Strauss, 1969, 46-47). Accettando per buona questa distinzione, il dilemma posto non trova risposta. Nessuno infatti potrà negare l’universalità della facoltà del linguaggio e quindi la sua condizione di fatto di natura, come nessuno metterà in dubbio che questo è assoggettato a delle norme (resterebbe comunque da stabilire fino a che punto esse sono esterne o interne) e che perciò è un fatto di cultura.

Se si nega una di queste due condizioni, si ha, nel primo caso, l’affermazione della totale culturalità del linguaggio e quindi la negazione della sua universalità; nel secondo, l’accettazione della sua totale naturalità e perciò il suo non assoggettamento a norme. Nel primo caso, cioè, la facoltà del linguaggio si verrebbe a configurare come un prodotto storico senza rapporto con l’uomo in quanto essere biologico, nel secondo come un fatto biologico indipendente dalla condizione storica dell’Uomo. È evidente che, assegnando ai termini natura e cultura il significato cui una certa tradizione scientifica ci ha abituato, il dilemma posto risulta irrisolvibile. Se invece, seguendo Chiarelli, consideriamo natura e cultura due aspetti non antinomici dell’unitaria realtà umana, esso non ha bisogno di essere risolto, semplicemente per il fatto che non si pone. Il linguaggio è natura e cultura. Dell’insostenibilità dell’antinomia natura vs. cultura, ha finito per accorgersi anche Lévi-Strauss, uno di coloro che nelle sue ricerche ha di essa fatto più uso. “Si sono verificati – egli ha alla fine affermato – negli ultimi vent’anni, enormi progressi nella nostra conoscenza della vita animale, e tali progressi tendono a mostrarci che l’opposizione tradizionale, così cara agli etnologi, fra natura e cultura, sia qualcosa di molto più complesso di quanto non fossimo propensi a credere trenta o quaranta anni fa. Ci sono, nella natura, molti fenomeni che sembrano appartenere già alla sfera della cultura” (Caruso, 1969, 89). L’etnologo francese, pur ritenendo la contrapposizione metodologica tra natura e cultura “ancora utile da mantenere in molti casi”, si chiede “se non sia essa stessa più una creazione della cultura che non un reale dato di fatto; [...] cioè se non sia stato proprio l’Uomo a voler tagliare tutti i ponti fra natura e umanità, per poi teorizzare questa scissione” (ivi, 90). Concetto questo ribadito e chiarito nella prefazione alla seconda edizione francese de Le strutture elementari della parentela. “Quanto all’opposizione tra natura e cultura – egli ha scritto – [...] proponevo di segnare la linea di demarcazione tra i due ordini facendo riferimento alla presenza o all’assenza del linguaggio articolato [...] Ma d’altro canto sono apparsi diversi fenomeni che rendono la linea di demarcazione, se non meno reale, certo più tenue e tortuosa di quel che si immaginasse vent’anni fa. Complessi procedimenti di comunicazione che talvolta impiegano veri e propri simboli, sono stati scoperti tra gli insetti, i pesci, gli uccelli e i mammiferi. Si sa anche che certi uccelli e certi mammiferi (e più particolarmente gli scimpanzé allo stato selvaggio) sanno confezionare ed usare degli utensili [...] Si è così indotti a chiedersi quale sia la vera portata della opposizione tra cultura e natura. La sua semplicità sarebbe illusoria se in buona misura essa fosse il prodotto di quella specie di genere Homo, che per antifrasi viene detta sapiens, ferocemente applicatasi ad eliminare le forme ambigue che ha giudicato prossime agli animali [...] quasi abbia innanzitutto preteso di impersonare da sola la cultura di fronte alla natura, e di restare ora l’unica incarnazione della vita di fronte alla materia inanimata, salvo il caso in cui può totalmente asservirla. In tale ipotesi, l’opposizione della natura e della cultura – conclude Lévi-Strauss – non sarebbe né un dato primitivo né un aspetto oggettivo dell’ordine del mondo. Dovremmo riconoscervi una creazione artificiale della cultura, un’opera difensiva che questa avrebbe scavato tutto intorno a sé, perché non si sentiva capace di affermare la sua esistenza e la sua originalità altro che tagliando tutti i passaggi che potrebbero testimoniare la sua originaria connivenza con le altre manifestazioni della vita. Per cogliere l’essenza della cultura bisognerebbe dunque risalire verso la sua sorgente e contrastare il suo slancio; riannodare tutti i fili spezzati, cercandone l’estremità libera nelle altre famiglie animali ed anche vegetali. Alla fine forse si scoprirà che l’articolazione di natura e cultura non riveste l’interessata apparenza di un regno gerarchicamente sovrapposto ad un altro cui il primo sarebbe irriducibile, ma piuttosto quella di una ripresa sintetica consentita dall’emergenza di certe strutture cerebrali appartenenti anch’esse alla natura, di alcuni meccanismi già montati, che però la vita animale presenta solo in forma slegata e concede in ordine sparso” (Lévi-Strauss, 1969, 19-20). Si rivela a questo punto priva di senso l’opposizione tra “concettualisti” e “realisti” circa il carattere delle strutture mentali. Il dilemma se esse siano delle entità naturali o delle formazioni storiche è improponibile. Sono tanto naturali quanto culturali, perché proprie della realtà umana che è natura e cultura. Dal ché un’ineludibile omologia, secondo lo stesso Lévi-Strauss, “tra le forme categoriali dell’intelletto e le trame costitutive della realtà” (Moravia, 1969, 305). Si potrebbe obiettare che rimane ancora da risolvere il problema della loro precedenza logica e cronologica, se cioè sono i processi cerebrali a riflettersi nella cultura oppure è quest’ultima a riflettersi in essi.

Ora, se come ha acutamente chiarito Piaget “l’essere delle strutture è la loro strutturazione” (1968, 170) ci ritroviamo di nuovo di fronte a un falso problema. Le strutture esistono nel loro farsi e non come insieme di relazioni precostituite. L’interrogativo su cui tanto ci si tormenta, se sono gli elementi a generare le strutture o le strutture a determinare il relazionarsi degli elementi, è risolto dalla contemporaneità degli uni e delle altre. Essendo infatti le strutture un’attività costitutiva, la possibilità del loro essere necessita degli elementi del suo costituirsi. Non c’è cultura senza processi cerebrali, non ci sono processi cerebrali senza cultura. Non si può negare “l’anteriorità storica della natura rispetto alla cultura” (Lévi-Strauss, 1969, 73). Le argomentazioni di Chiarelli, tuttavia, sono tali da dimostrare che la natura, storicamente, diremo meglio cronologicamente, anteriore alla cultura, resta al di fuori di ogni discorso sull’Uomo in quanto tale. È perciò da respingere la posizione di coloro che ancora si ostinano a ritenere, più o meno consapevolmente, le categorie mentali delle forme a priori. È però altrettanto errata l’opinione di chi le considera semplicemente un prodotto storico, dimenticando che la loro esistenza è impensabile al di fuori dell’attività cerebrale propria alla condizione naturale dell’uomo. L’indissociabilità di natura e storia, che si realizza ed esprime nell’unità Uomo, garantisce non solo l’omologia ma anche la contemporaneità delle strutture della realtà e delle forme categoriali dell’intelletto. Questa soluzione del problema, più che essere negata, finisce con l’essere confortata dal noto passo di Marx contro Proudhon: “Questi stessi uomini che stabiliscono i rapporti sociali conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali. Così queste idee, queste categorie, sono tanto poco eterne quanto le relazioni che esprimono. Sono prodotti storici e transitori” (Marx, 1950, 89). Se si accetta che gli uomini conformemente ai loro rapporti sociali producono le categorie in termini di un prima e di un poi cronologici, resta tuttavia il serio problema di sapere che specie di uomini erano quelli che, privi di categorie, stabilirono i rapporti sociali conformemente alla loro produttività materiale. Non volendo attribuire a Marx l’invenzione di una nuova specie di ominidi, il suo discorso si deve interpretare nei termini di un prima e di un poi logici (Lefebvre, 1965, 110). Le categorie però, dice Marx, sono prodotti storici e transitori. È verissimo. Lo sono nella stessa misura in cui lo è l’Homo sapiens rispetto all’Homo erectus, ai millenni che stanno alle sue spalle e a quelli, che, malgrado l’affannarsi di alcuni, ci si augura possano stargli di fronte. L’esistenza delle strutture mentali è un fatto di misure finite e non di tempi infiniti: misure omologhe a quelle della condizione storica della cultura. Che tra natura e cultura non ci sia opposizione, ma un processo di interazione, è stato tra l’altro chiarito anche dallo stesso pensiero marxista. Sarà utile, tuttavia, esemplificare il rapporto tra natura e storia a livello delle strutture. Come è noto una delle sequenze minime estrapolabile dalla tavola delle funzioni elaborata da Propp (1966) è: x CA Rm. Questa sequenza funzionale sarebbe sostanzialmente, secondo lo stesso Propp (1949), connessa ai riti iniziatici della fase della caccia e della raccolta. Una certa struttura delle fiabe di magia si sarebbe quindi generata in una situazione culturale ben determinata, sarebbe un prodotto storico. Non abbiamo ragione di mettere in discussione questa ipotesi. Essa appare del tutto fondata. Non è casuale che Pierre Saintyves (1923) pur muovendo da presupposti ideologici e metodologici diversi da quelli di Propp, abbia riportato ai riti iniziatici, tipici dello stesso contesto storico-culturale indicato dal folklorista russo, la genesi di certe fiabe popolari europee. Se è evidente però nel modello funzionale elaborato da Propp il rapporto tra struttura e storia, altrettanto evidente è la relazione tra struttura e natura. Basta dare infatti uno sguardo alla tavola delle sequenze vitali indicate da Malinowski (1962, 84) per avvertire che la loro struttura formale è identica a quella individuabile, secondo il metodo di Propp, nelle fiabe di magia. Per esempio la sequenza: fame-ingestione di cibo-sazietà, può essere facilmente formalizzata come x (il bisogno di cibarsi), C (la decisione di cibarsi), A (il cibarsi), Rm (il soddisfacimento del bisogno).

Servendosi del modello funzionale elaborato da Propp, operazioni di questo tipo sono facilissime, non solo ove si voglia formalizzare l’intera tavola delle sequenze vitali di Malinowski, ma qualsiasi evento. Sicché è stato detto, e chi lo dice non si rende conto di cogliere il nodo centrale del rapporto natura-cultura, che il modello funzionale di Propp è la metafora dell’universo. Questo rapporto era, al contrario, ben chiaro a Malinowski, quando scriveva: “Per quanto riguarda la presente analisi, comunque, noi abbiamo solo bisogno di stabilire che le sequenze vitali riassunte nella nostra tavola debbano essere, in primo luogo, definite biologicamente. Esse sono in rapporto con la cultura, anzitutto attraverso la ridefinizione degli impulsi, o anche attraverso il fatto che il soddisfacimento di un impulso, o come direbbero alcuni comportamentisti, il rafforzamento di un impulso, è un fattore psicologico e fisiologico costante che controlla il comportamento umano in tutta la vasta classe di attività determinate tradizionalmente. Noi potremo vedere chiaramente che tutte le vaste aree di attività culturali altamente complesse e differenziate sono, sia a livello primitivo che a livello altamente sviluppato, in relazione più o meno diretta con le sequenze vitali qui enumerate” (Malinowski, 1962, 88). La stretta connessione tra strutture culturali e natura, che sulla base di quanto afferma Malinowski viene così a istituirsi, aiuta a capire il problema degli universali, il perché cioè della permanenza di certe strutture. È infatti evidente che, pur cambiando nel tempo la modalità delle risposte culturali alle sequenze vitali, che poi altro non sono che universali biologici, la struttura delle prime deve necessariamente, pena l’inadeguatezza della risposta, restare aderente alla struttura delle seconde e seguirne il ritmo.

In sostanza questa opera di Chiarelli è una lezione dalla quale, liberandoci da alcuni devastanti idola della tradizione scientifica dell’Occidente, apprendiamo in termini innovativi che la cultura esita dal rapporto tra l’Uomo e la natura, sempre che nella sua assunzione sincronica esso sia inteso come culturalmente mediato, giusta la formula di L.A. White (1969, 45) per il comportamento umano: organismo umano × stimoli culturali = comportamento umano.

Dall’assunzione della cultura quale risultato del rapporto tra l’Uomo e la natura, consegue che la differenza tra questi ultimi è identica a quella che esiste tra gli elementi di un rapporto e il loro prodotto.

Considerando quindi che nell’Uomo e nella natura si riscontrano delle costanti e delle variabili, anche nella cultura saranno da riconoscere, e di fatto si riconoscono, costanti, sia pur relative, e variabili. Si intendono così i tre tratti apparentemente contraddittori ma distintivi della cultura: il suo essere universale e individuale, statica e dinamica, inconsapevole e consapevole (Herskovits, 1952, 7). La cultura è universale perché è carattere costitutivo e permanente di tutti gli uomini, ma è individuale perché in ognuno di essi si manifesta con esiti diversi. È statica perché il suo permanere nel tempo ne impone la ripetizione, ma è dinamica perché l’Uomo sotto la spinta dei vari condizionamenti cui è sottoposto, è costretto ad un continuo lavoro di sua reinterpretazione e invenzione. La stabilità della cultura è favorita dalla sua trasmissione da generazione a generazione, cioè da cosiddetti processi di inculturazione; e il suo mutamento anche dai cosiddetti fenomeni di acculturazione, dai complessi rapporti di scambio cioè che vengono determinati dal contatto fra culture diverse. Infine la staticità della cultura, fondata sulla ripetizione, ne determina l’uso inconsapevole, la dinamicità invece, dovuta ai processi di reinterpretazione e invenzione, ne promuove la produzione consapevole.

A questo punto risulta facilitato l’esame della relazione della cultura con l’economia e la società, gli altri due aspetti, come mostrato dall’opera di Chiarelli, costitutivi del rapporto tra l’Uomo e la natura. Il problema ha trovato, come si sa, gli autori divisi perché è sembrato che dalla prevalenza assegnata a uno di questi aspetti sugli altri dipendesse la validità delle singole concezioni del mondo e della vita. La polemica si è accentrata particolarmente sul rapporto tra l’economia e la cultura, dando luogo a due ben noti diversi orientamenti: il determinismo economico (Marx) e il determinismo culturale (White). Per avere un’idea della complessità del problema basti pensare che diversa è la soluzione data a esso da Marx e da Engels. Per Marx: “Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’Uomo sono necessariamente sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero” (Marx-Engels, 1972, 22).

Engels al contrario afferma: “Secondo la concezione storica materialistica il fattore decisivo in ultima istanza è la produzione e la riproduzione della vita reale. Più di questo né Marx né io abbiamo mai asserito. Ma quando qualcuno trasforma il nostro pensiero nell’affermazione che le forze economiche sono l’unico fattore della storia, lo cambia in una frase astratta, assurda, priva di senso. La condizione economica è essenziale, ma i vari elementi della sovrastruttura – le forme politiche dei conflitti sociali ed il loro risultato, le costituzioni – le forme giuridiche ed anche i riflessi di questi conflitti reali nei cervelli dei partecipanti, le idee politiche, giuridiche, filosofiche, religiose... tutto ciò esercita un’influenza sullo sviluppo delle lotte storiche ed in molti casi ne determina la forma” (Sabine, 1962, 616-617). In realtà, se per economia si intende il sistema della produzione e dello scambio dei beni materiali, e per società il sistema dei rapporti sociali, il problema della precedenza da assegnare all’una o all’altra rispetto alla cultura o viceversa non esiste, almeno in termini cronologici. È infatti chiaro che in quanto sistemi essi appartengono per ciò stesso a una fase in cui il rapporto fra l’Uomo e la natura è già stato organizzato in forme culturali contemporanee ed essenziali al loro costituirsi. “Non c’è attività umana – ha detto bene Gramsci – da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’Homo faber dall’Homo sapiens” (cfr. Buttitta, 1995). In altri termini non può esistere alcun fatto sociale al di fuori della cultura; d’altra parte non c’è fenomeno culturale che non sia anche fatto sociale, sia perché riflette modelli sociali di comportamento, sia perché è destinato anche contro la volontà dei suoi produttori ad un uso sociale. Il pensiero antico aveva intuito che la cultura costituisce la condizione della socialità dell’Uomo, non solo dunque il suo tratto pertinente come specie, ma anche la sua possibilità di esistenza. Era assolutamente evidente infatti che l’Uomo esisteva come tale in quanto essere sociale secondo il detto unus homo, nullus homo.

È molto significativo, e anche non casuale, che Aristotele abbia fondato sul linguaggio le sue argomentazioni intorno a questo problema. È il logos infatti che, gettando un ponte fra uomo e uomo, ne assicura e garantisce la socialità. I progressi della linguistica, individuando il funzionamento interno della lingua, ci hanno messo oggi in condizione di capirne le ragioni. È grazie al fatto che la lingua, non è solo parole, cioè atto individuale di comunicazione irreversibile, ma langue collettiva reversibile al di là di ogni possibile nuova situazione e invenzione espressiva, che la comunicazione, dunque la socialità, rimane pur sempre garantita fra gli uomini. Per la cultura vale quanto vale per la lingua. Ciò per due ragioni. La prima è che, essendo il linguaggio parte sostantiva della cultura, la condizione della sua coerenza con questa è data dal rispetto degli stessi meccanismi. La seconda è molto più semplice: la cultura è essa stessa linguaggio, funziona in quanto linguaggio. Ogni comportamento culturale, ogni prodotto umano è anche fatto di comunicazione. La cultura, per garantire la socialità umana, ha bisogno di porsi come territorio dello scambio, deve cioè comunicarsi. Non è dunque solo strumento della comunicazione, ma comunicazione essa stessa. “Il linguaggio appare – ha osservato Lévi-Strauss – anche come condizione della cultura nella misura in cui quest’ultima è dotata di un’architettura simile a quella del linguaggio”. Ciò perché, osserva ancora l’antropologo francese, “lingua e cultura sono due modalità parallele” dell’attività unica dello spirito umano (1966, 84, 87). Se ogni fenomeno culturale è più o meno consapevolmente un fatto di comunicazione, la cultura è il momento in cui il rapporto tra l’Uomo e la natura si esprime e realizza in sistemi di segni, determinando le condizioni d’esistenza dell’Uomo stesso in quanto essere sociale. Se i fatti culturali sono processi di comunicazione, essi sono allora anche fatti economici in quanto parte del sistema della produzione e dello scambio dei beni in cui consiste l’economia. Né vale l’argomento che nel caso di quest’ultima si tratta di beni materiali, se come sempre è accaduto, di ogni fatto culturale, tra l’altro, è sempre possibile l’utilizzazione come merce. A questo punto non ha senso chiedersi se l’economia o la società vengano prima e condizionino il farsi della cultura o viceversa, visto che in ultima istanza si tratta sempre degli stessi fatti cui noi diamo il nome di economia, di società o di cultura a seconda del livello di pertinenza assunto. È chiaro comunque che alla base del continuum economia-società-cultura sta il bisogno della produzione e riproduzione della vita, cioè un fatto di natura. Di fronte a un fenomeno culturale non sarà più lecito dunque chiedersi da quale fatto naturale, economico o sociale è determinato ma a quale è connesso, anche se, ai fini della sua analisi a livello sovrastrutturale, è del tutto legittimo ricercare il fatto naturale, economico o sociale che lo ha promosso, sempre che non si dimentichi che essi in obiecto sono indissociabili, rendendo pertanto sempre possibile il procedimento inverso. In altri termini, quando si dice che un fatto di un certo tipo ne ha preceduto un altro di diverso tipo, questo dipende dalla diversa isotopia utilizzata nei casi presi in esame. Ecco perché è risultato facile ad autori di orientamento contrario portare esempi abbastanza convincenti a riprova della giustezza delle loro opposte tesi. È ben vero, per esempio, che certi individui in nome di valori ideali hanno preferito perdere beni materiali e in taluni casi anche la vita, ma è sufficiente questo per sostenere la priorità dei fatti culturali su tutto il resto? E quei valori ideali erano soltanto tali? Degli uomini che preferiscono morire per difendere una bandiera, agiscono solo in difesa di un simbolo astratto, oppure anche perché, sia pure inconsapevolmente, mossi da valori quali il territorio, la proprietà, il gruppo, la famiglia, da fatti cioè economici e sociali dei quali quella bandiera è l’oggettivazione in segno? (Buttitta, 1995) Nell’analisi concreta dei prodotti umani, quindi, quando si vogliono ricercare i rapporti fra questi intercorrenti, è necessario mantenersi allo stesso livello di pertinenza, oppure prendere in carico tutti i livelli possibili. L’articolazione della realtà umana in livello naturale primario, economico secondario, sociale terziario, culturale quaternario, se intesa in termini cronologici, è a dir poco deformante, mentre risulta metodologicamente utile, in quanto organico e coerente modello conoscitivo, se intesa in termini logici. Se ci si libera infine a proposito dei termini natura e cultura di tutta una serie di pregiudizi tradizionali, connessi ai concetti di spazio e tempo, l’antinomia, natura-staticità vs. storia-temporalità, si rivela del tutto erronea. La considerazione che spazio e tempo sono fatti distinti appartiene all’armamentario della fisica tradizionale che quella contemporanea ha già da molti anni liquidato. Spazio e tempo sono distinguibili soltanto sul piano della astrazione, nella realtà essi sono strettamente connessi, sono aspetti inscindibili di un unicum continuum spazio-temporale.

“Pertanto – sostiene Albert Einstein – non è più lecito scindere, come nella fisica classica, il continuo bidimensionale in due continui unidimensionali [...] La scissione del continuo bidimensionale in due continui unidimensionali è, dal punto di vista della teoria della relatività, un procedimento arbitrario, privo di significato oggettivo” (Einstein, 1965, 217). Dunque se la natura e la cultura appartengono all’einsteiniano “mondo degli eventi”, ciascuna loro componente esiste soltanto in quanto iscritta in un continuo bidimensionale spazio-temporale. Opporre una natura-stasi a una cultura-tempo, pertanto, costituisce una mistificazione della realtà. Nel continuum bidimensionale spazio-temporale (o quadridimensionale se vogliamo tener conto di tutti i suoi valori) (Einstein, 1965, 217), stasi e mutamento sono indissociabili. L’opposizione tra diacronia e sincronia non ha pertanto fondamento nella realtà: non corrisponde, come ha anche osservato Jakobson (1949, 315-36; 1966, 15), alla condizione reale dei fenomeni. “La difficoltà di integrare la dimensione temporale nelle considerazioni relative al modo d’esistenza delle strutture di significazione non fa che sottolineare – ha osservato Greimas – la non pertinenza della dicotomia saussuriana sincronia-diacronia” (Greimas, 1967, 45). Per inciso è da osservare che un’interpretazione corretta dei testi saussuriani non preclude ma legittima anche la considerazione storica del linguaggio (De Mauro, 1967, 42). “Riconoscendo che il segno non ha una motivazione ‘naturale’ (non dipende dalle caratteristiche proprie della sostanza fonica e di quella psicologica, ma si fonda su un’attività di articolazione, di analisi del continuo in unità finite e delimitate), Saussure ha creato i presupposti per una considerazione di tipo storico. Infatti, se non è vincolata alla materia che mette in forma, se non è cioè determinata dalla ‘natura’ dei mezzi che appronta, la comunità dei parlanti non è esposta ad altro che alle proprie necessità interne: necessità sociali e quindi in divenire, in base alle quali la temporalità della lingua è non solo consentita ma postulata” (Bonomi, 1968, 11). In realtà, nel definire il rapporto tra natura e cultura dimentichiamo generalmente che l’antinomia tra sincronia e diacronia è una nostra finzione metodologica e finiamo col trattare come realtà oggettiva un’ipotesi di lavoro la cui importanza, in quanto tale, non è da sottovalutare. Da qui l’insanabile contraddizione tra strutture sincroniche e strutture diacroniche, tra sistemi e processi. È evidente che le strutture, se per esistere hanno bisogno di una concreta realtà spazio-temporale, sono sempre e contemporaneamente statiche e dinamiche. Sono, come appunto ha intuito lo stesso Lévi-Strauss, bidimensionali (Lévi-Strauss, 1965, 39). Non vi può essere quindi struttura senza processo e processo senza struttura. Anche le strutture del regno naturale, apparentemente immobili, traggono la loro ragione d’esistenza da continui processi interni, dai permanenti rapporti dinamici dei loro elementi costitutivi, rapporti che i progressi della scienza oggi consentono di spezzare per creare nuovi processi cioè nuove strutture. Si potrebbe obiettare che accanto a sistemi di trasformazione chiusi, esistono sistemi di trasformazione aperti. I primi sarebbero le strutture naturali, i secondi le strutture culturali. L’obiezione sarebbe valida se l’universo non avesse al suo attivo milioni di anni di evoluzione, se essa non fosse ancora operante e se le regole che la governano fossero state fissate una volta e per tutte. È proprio il corso universale degli eventi a offrire al contrario la prova indiscutibile che i processi così detti chiusi sono altrettanto aperti quanto quelli che noi diciamo tali. Esiste solo un problema di durata. Sicché, parafrasando ma contraddicendo Lévi-Strauss, possiamo affermare che in linea di diritto e in linea di fatto ogni struttura è sempre diacronica e sincronica. Quanto fin qui accennato si documenta e si chiarisce grazie alle pagine di Chiarelli, in termini decisivi. Questo fatto, unitamente alla organizzazione data ai materiali, alla loro utilizzazione sistematica e critica, in un impianto generale coerente e sempre lucido, è ragione sufficiente per poter affermare che questa sua ultima impegnativa fatica è un testo a dir poco esemplare. Antonino Buttitta Dipartimento dei Beni Culturali Università di Palermo

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