L. SANITA' DI TOPPI
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PRESENTAZIONE
In un giorno imprecisato un anonimo atomo di carbonio, figlio di una lunghissima storia cosmica, “ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di luce”. Così si rinnovò il prodigio biochimico della fotosintesi, “fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale”, la stretta porta che, mediamente ogni duecento anni, fa entrare e rientrare ogni atomo di carbonio presente in atmosfera nel grande ciclo della vita. L’immortale atomo di carbonio divenne allora parte di una molecola di glucosio: “viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai”. Fu infatti ingollato da un bevitore umano, parcheggiato qualche giorno nel fegato, ritrasformato in glucosio e trasportato verso un muscolo, quindi incluso in una molecola di acido lattico e poi espulso di nuovo in atmosfera sotto forma di anidride carbonica. Lo ritroveremo molti anni dopo, in Libano, imprigionato dentro il tronco di un cedro, e ancor più avanti in un bicchiere di latte, metabolizzato il quale l’atomo di carbonio finisce dentro a un neurone. Il tutto grazie alle “nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono”, ma da cui la nostra intera vita dipende. Questo viaggio per nulla immaginario è raccontato dal chimico Primo Levi in “Carbonio”, l’ultimo celebre capitolo de Il sistema periodico (1975), ed è un buon viatico letterario per intraprendere lo studio di questo originale compendio delle interazioni tra le piante e l’ambiente. Relazioni di ogni tipo - collaborative, competitive, mutualistiche, simbiotiche, endosimbiotiche – al cui centro stanno sempre le piante. Relazioni tra piante e cambiamenti o stress ambientali, tra piante e parassiti, piante e funghi, funghi e alghe, piante e batteri, piante e insetti, piante ed erbivori, e naturalmente anche piante e umani. Noi sedicenti sapiens abbiamo addomesticato alcune piante per i nostri fini una dozzina di millenni fa, anche se già i Neandertal avevano imparato a selezionarle non solo per fini alimentari ma anche di auto-medicazione. Ci siamo così convinti di dominarle per mezzo di incroci mirati e selezione artificiale. In realtà, evolutivamente parlando, sono loro ad aver addomesticato noi, usandoci come impareggiabile veicolo di diffusione e impregnando ogni aspetto delle nostre nicchie eco-culturali, dato che con le piante mangiamo, scriviamo, ci vestiamo, costruiamo abitazioni e mezzi di trasporto, ci abbelliamo, ci coloriamo, ci droghiamo, ci avveleniamo e ci curiamo. Ciò nonostante, le piante avranno di che temerci in futuro, visto che la frammentazione degli habitat causata dalla deforestazione, la diffusione di specie invasive, il sovrappopolamento urbano e l’inquinamento agricolo e industriale stanno generando un’estinzione di massa della biodiversità (anche vegetale) che ha come precedenti soltanto le cinque maggiori catastrofi degli ultimi cinquecento milioni di anni. Ora che alla miscela poco sopra descritta si aggiunge il riscaldamento climatico, di cui si parla profusamente in questo volume, alcuni scienziati hanno proposto il modello della “tempesta perfetta”: l’Antropocene rischia di passare alla storia come il più grande stravolgimento ecologico degli ultimi 65 milioni di anni, e una parte consistente del nostro destino dipenderà dalle capacità di resistenza delle piante a questa combinazione inedita di stress ambientali. Vi è un che di ironico nel fatto che il riscaldamento climatico dipenda dal riportare in superficie e dal bruciare quei giacimenti di carbon fossile e di petrolio che sono eredità geologica dell’attività fotosintetica. Alle piante sempre si ritorna, se non altro perché da loro e dai cianobatteri dipende, grazie alla fotosintesi ossigenica, la composizione dell’atmosfera che ha reso abitabile per noi il pianeta. Oltre che base delle nostre economie, le piante e i batteri sono gli agenti geochimici globali che hanno dettato i cambiamenti dei parametri fondamentali per la vita animale. Dobbiamo dunque a loro la nostra esistenza e sono tante: più di 400mila le specie note, di cui 353mila piante a fiore, campionesse di diversità morfologica e di versatilità ecologica (l’80% delle quali è impollinata per mezzo di animali), la cui esplosione evolutiva nel Cretaceo angustiava già il gradualista Charles Darwin e resta a tutt’oggi ancora da decifrare. E poi sono un modello di ingegnosità adattativa che dovremmo imitare: da 475 milioni di anni colonizzano le terre emerse, senza spostarsi né vedere, sperimentano formidabili strategie adattative per difendersi, comunicare, competere e proteggersi dagli stress biotici e abiotici. Puntano tutto sulla raffinatissima sensibilità chimica, sulla biosintesi e sulla plasticità, grazie ad adattamenti evolutivi unici ma anche alle capacità di regolazione e di memoria epigenetica, di acclimatamento e omeostasi. Come troviamo ben spiegato in questo testo, la strategia del successo vegetale è data da opportunismo ed economicità: ridurre al minimo i costi per garantire la sopravvivenza, per esempio riutilizzando e convertendo per nuove funzioni strutture che si erano evolute per altre ragioni o come effetti collaterali. Un’idea, questa della cooptazione funzionale (oggi ribattezzata “exaptation”), che fu proposta da Darwin nella sesta edizione dell’Origine delle specie nel 1872. In quegli anni il grande naturalista inglese, nella sua serra a Down House, si occupava principalmente di piante: della loro vita sessuale, delle loro percezioni, dei movimenti oculati e dei loro meravigliosi dettagli nel grande schema della natura. Da questa passione nacque una serie di accurate monografie botaniche: sui “movimenti e le abitudini delle piante rampicanti” nel 1864; sulle piante insettivore nel 1875, dopo anni di sperimentazioni con drosere e dionee, aiutato dal figlio Francis; sugli esperimenti di impollinazione e sugli effetti della fecondazione incrociata e dell’autofecondazione nelle piante, nel 1876; sulle differenti forme dei fiori nelle piante della stessa specie nel 1877; ancora sul potere di movimento delle piante nel 1880, a due anni dalla morte. Nel 1862, l’uomo che aveva scosso i massimi sistemi della natura pubblicava un volume sui “vari espedienti attraverso i quali le orchidee sono fecondate dagli insetti”, un piccolo gioiello sulla bellezza delle furbizie artigianali della natura, sugli effetti positivi dell’incrocio e sull’importanza evoluzionistica dell’exaptation: “In tutta la natura quasi ogni parte di ciascun essere vivente è probabilmente servita, con poche modifiche, ad altri scopi e ha funzionato come parte della macchina vivente di molte e diverse forme antiche”. Dalle interazioni tra le piante e l’ambiente un mammifero sapiens dovrebbe dunque trarre preziose lezioni. Le piante sono bio-sintetizzatori di cocktail di metaboliti secondari che, ancorché originatisi per tutt’altre funzioni nel mondo vegetale, diventano incidentalmente farmaci per gli umani e magazzino di sostanze dalle infinite applicazioni (eccitanti, calmanti, coloranti, profumi, cosmetici, insetticidi, ecc.). Sono bioindicatori e sentinelle dei guasti umani, nonché bio-accumulatori che ci liberano da inquinanti per noi mortali. I plantoidi, loro copia bio-robotica, sono macchine che mimano i movimenti delle radici e promettono impieghi nell’esplorazione dei suoli (terrestri e non solo) e nel monitoraggio ambientale. Il tutto grazie alle sorelle silenziose di cui scriveva Primo Levi, con una citazione del quale (dal racconto Il fabbro di se stesso) ci congediamo augurando buona lettura: “Sembrano stupide, eppure rubano l’energia al sole, il carbonio all’aria, i sali alla terra, e crescono per mille anni senza filare né tessere né scannarsi a vicenda come noi”.
Telmo Pievani
Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza
Dipartimento di Biologia
Università di Padova
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