La medicina legale nella protezione dei diritti umani
Luciana Caenazzo - Sarah Gino
20,00 €
PREFAZIONE
Quando a parlare di diritti umani sono i corpi, l’ effettività concreta di tali diritti assume il carattere di prepotente evidenza. I corpi
divengono immediatamente un parametro indicativo di quanto gli asserti che formulano i diritti stessi siano in grado di trasformarsi
in esperienza viva, in attuazione reale, o di quanto invece rimangano come enunciazioni di sfondo che non incidono nella durezza
degli eventi: senza incidere sulla materialità di cui i corpi sono, appunto, espressione.
Questo criterio rivelatore della effettività delle affermazioni di una società tendenti a costruire le relazioni al suo interno sulla
“pietra” solida del rispetto dei diritti fondamentali di ogni suo componente, è applicabile nei vari ambiti dove la libertà individuale
è privata. Laddove la persona non ha possibilità di muoversi liberamente e di decidere in modo autonomo del proprio andare e del proprio agire, perché la sua libertà è nelle mani di chi – pur legittimamente – esercita il massimo del potere che uno Stato ha
rispetto a un individuo: restringerlo sotto la sua autorità, privandolo della libertà. “La libertà personale è inviolabile” recita il primo
comma dell’ articolo 13 della nostra Costituzione e, subito dopo, circoscrive le possibili restrizioni alla riserva di legge e di giurisdizione, prima di indicare con chiarezza che “è punita ogni violenza =sica o morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà”. Ma, proprio questi limiti al potere dell’ autorità pubblica, tenuti insieme dall’affermazione iniziale di principio, indicano che privare una persona della sua libertà, sia essa trattenuta, ospitata coattivamente in un luogo o detenuta, è anche, immetricamente e contestualmente, assumersi la responsabilità nei suoi confronti di tutela e garanzia. Perché chi esercita tale ruolo diviene di fatto il primo tutore della legalità, garante di tutti quei diritti che Costituzioni e Convenzioni – e le leggi che da esse discendono – assicurano alla persona che di tale misura restrittiva è oggetto. Qui sono i corpi a parlare, anche più degli atti giuridici che hanno consentito, attuato o confermato la privazione della libertà, perché ci dicono come tale potere coercitivo si sia concretamente realizzato.
Ci parlano, per esempio, delle condizioni materiali dei luoghi in cui i corpi stessi sono stati rinchiusi; ci parlano degli eventuali
maltrattamenti subiti, dell’ incidenza che tali trattamenti hanno avuto sulla persona. Possono parlarci anche degli eventi tragici che
si siano verificati in quel tempo sottratto. Ci parlano degli effetti anche non immediati che sulla persona tale trattamento può aver
determinato. E la medicina legale è di aiuto nella lettura di questi segni: certamente non soltanto fisici, ma anche psicologici – del
resto ormai sappiamo che nel parlare di “corpo” anche la psiche è inclusa, mai separabile dal soma, nel valutare a posteriori cosa
possa essere avvenuto.
Le condizioni materiali dei luoghi di detenzione sono state spesso oggetto di analisi di vari organismi di monitoraggio, nazionali
e internazionali, sempre più con la volontà di un’ analisi in funzione di prevenzione al fine di individuare le condizioni che possano
degenerare in quel “trattamento inumano o degradante” vietato – senza alcuna possibile deroga – da trattati internazionali: nel nostro continente, dalla Convenzione europea per i diritti umani, sin dalla sua adozione nel 1950. Il sovraffollamento è senz’altro il tema più direttamente posto all’attenzione delle Corti nazionali e internazionali, nonché più noto all’attenzione pubblica. Tuttavia, nel contesto dell’ analisi degli effetti che può determinare una detenzione sofferta in condizioni non accettabili, non è l’ unico fattore da tenere presente. Più in generale – e qui entra in campo il sapere medico – è il rapporto, spesso complesso e distorto, che la persona detenuta ha con il proprio corpo a entrare in gioco. Infatti, il diritto alla salute è indissolubilmente legato ad altri diritti e altre tutele: della dignità, del benessere psico-fisico, dell’ integrità della persona.
In un luogo così negativamente caratterizzato quale è il carcere, abitato da una popolazione segnata non solo dal proprio stato contingente, ma spesso da un “prima” di tale stato e dal rischio di un “poi” che a esso troppo assomigli, il diritto alla salute non può e non deve limitarsi alla sola dimensione terapeutica, ma deve necessariamente essere ampliato alla considerazione delle connessioni relazionali in cui il mal-essere si inserisce e la malattia si sviluppa e alla predisposizione di tutti gli strumenti che possano ricostruire un effetto lenitivo di tale situazione, al fine di ricostruire un nucleo di possibile benessere. Se è così definito il diritto alla salute come significato e come dimensione, il suo non rispetto si ha in primo luogo quando una persona è ristretta in un ambiente insalubre, in un ambiente che non consente la possibilità di uno spazio vitale e di movimento adeguato, in un ambiente in cui la stimolazione sensoriale, inclusa quella visiva, non può esplicarsi. Tutti elementi da valutare nel loro cumulativo effetto e per i quali il contributo medico-legale è essenziale perché è quello che riesce a rintracciare tali limiti all’esercizio del diritto, attraverso il “parlare” del corpo.
Se questo è un ambito di carattere contestuale e generale, vi è poi il contributo specifico della medicina legale nel caso in cui a
tale caratteristica ambientale si aggiunge il maltrattamento fisico o psichico diretto. Più volte si è osservato come il nostro Paese,
nonostante l’ esplicito richiamo dell’ articolo 13 con quel precetto contro i maltrattamenti che inizia con la frase “è punito”, abbia impiegato lunghi decenni e faticosi dibattiti prima di introdurre un reato specifico che punisse in modo adeguato tali comportamenti, soprattutto se messi in atto da parte di chi ha la responsabilità diretta della tutela della persona ristretta. Solo pochissimi anni fa, si è riusciti a dare il nome “tortura” a tali atti e a prevedere una sanzione che non corresse il rischio di quella rapida prescrizione che si aveva col ricorso a ipotesi incriminatrici di minore spessore e rapida evanescenza. Con il conseguente implicito messaggio d’ impunità. Eppure non mancavano elementi identificativi chiari in taluni casi, non mancavano alcuni interventi coraggiosi di medici che non sfumavano in quell’incertezza linguistica che non aiuta il giudice nella decisione, non mancavano descrizioni supportate da prove, come nel caso dei ripetuti maltrattamenti imposti alle persone fermate nelle giornate di Genova dell’ inizio di questo millennio. Mancava il reato: una mancanza ora sanata, ma che richiede anche un impegno deontologico a far sì che la norma introdotta possa identicare quelle situazioni – fortunatamente poche, ma densissime di significato – di persone che hanno visto aggredita la propria integrità fisica, il proprio equilibrio psichico, la propria dignità durante il periodo di privazione della libertà da parte dell’ autorità pubblica. Un impegno deontologico, questo, che è anche atto dovuto verso la stragrande maggioranza di coloro che operano rispettosamente e con dedizione in questo difficile settore e che hanno diritto a non essere accomunati in un opaco e indistinto raggruppamento con coloro che di tali atti si sono resi responsabili.
Il passaggio da una sfera d’ intervento della funzione medico-legale centrata sulle condizioni complessive a quella relativa alle violazioni nei confronti dei singoli apre alla terza vasta area relativa alle vere e proprie aggressioni nei confronti di settori di vulnerabilità specifica. Il concetto di “vulnerabilità aggiuntiva” – spesso di persone già di per sé vulnerabili – trova la sua esplicazione in alcuni contesti. Non è lo stesso in tutti i luoghi del mondo o in tutte le situazioni storiche: la vulnerabilità femminile specifica laddove si praticano mutilazioni volte a tenere il gioco di potere sessuale in mano ai maschi; quella relativa all’orientamento sessuale nello spazio pubblico di talune società più chiuse e all’interno dei luoghi di restrizione anche in quelle apparentemente più aperte; la vulnerabilità delle persone anziane, disabili o comunque fragili in luoghi dove l’ istituzionalizzazione regna quale annientamento di ogni forma di autodeterminazione; o, ancora, quella relativa alla minorità di età, di supporto sociale, di rappresentanza all’interno di una popolazione. Sono tutte queste vulnerabilità più o meno accentuate in Paesi e contesti diversi, ma tenute saldamente insieme dalla necessità di una tutela rafforzata delle garanzie e dei diritti; una tutela a cui tutti siamo chiamati a contribuire se vogliamo dare un significato effettivo al nostro facile convenire sul valore della “persona” e sull’intangibilità dei suoi diritti primari. Ma, tale contributo deve trovare la possibilità di rafforzarsi con l’ apporto che le discipline giuridiche, mediche e sociali possono e devono dare; perché da esse deve venire il supporto fondamentale a rendere effettive ed efficaci le nostre dichiarazioni di principio. Del resto, si è propriamente tecnici nei propri ambiti disciplinari, quando si è in grado non soltanto di esercitare in modo documentato e professionale la propria azione, ma anche quando si è anche disponibili a far sì che la propria capacità tecnica faccia crescere la collettività nel suo complesso. A far sì che essa dia il suo contributo indipendente,
ma non asettico, bensì orientato a una sempre maggiore espansione dell’ esercizio dei diritti.
Le pagine che seguono aiutano in tal senso perché vanno in questa direzione, nei diversi campi che affrontano.
Mauro Palma
Presidente
Garante nazionale
dei diritti delle persone
detenute o private
della libertà personale
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