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Immagini e parole di Clown Terapia
“Chi riesce a dar forza alle proprie parole, sicuramente costui le ha basate sulla realtà e non sulla fantasia, sull’oggettività e non sulla soggettività.” (I Ching)
Presentazione Da diversi anni mi occupo degli aspetti psicologici del clowning e più procedo nella ricerca più il problema mi appare complesso. Dal mio punto di vista la difficoltà più grande sta nel mantenere la distanza giusta, senza lasciarmi trascinare dal sentimento.
Avendo io stessa sperimentato la gioia di andare per il mondo, vestendo i panni del clown (Farneti, 2004), quando vengo invitata a parlare da gruppi di clown, entusiasti del loro lavoro, che si spendono “anima e corpo” (e in questo caso non è solo un modo di dire!) per aiutare bambini, adulti e anziani in difficoltà, la cosa più ardua è continuare a fare la parte dell’ “avvocato del diavolo”, senza farmi “traviare” dalla simpatia che provo nei loro confronti.
D’altra parte, però, il principale compito di un ricercatore serio è quello di tendere alla verità (senza la presunzione di raggiungerla!), facendo agire la ragione e non il cuore.
Quando Michele Simionato mi ha chiesto una presentazione al suo libro di foto, la tentazione di lasciarmi andare a sentimentalismi è stata forte.
Tutti quei magnifici sorrisi e quegli occhi di bimbi incantati di fronte ai giochi dei clown non possono che suscitare immediate reazioni emotive.
I testi che introducono le foto, poi, sono traboccanti di speranza e mostrano la dedizione con cui questi giovani medici e psicologi svolgono il loro lavoro.
La loro totale fiducia negli effetti positivi, anzi quasi magici di un naso rosso, traspare dalle parole di Anna Peruzzi, che apre il suo lavoro così: “Un incontro speciale, una persona speciale. “Ci siamo guardati e ci siamo innamorati. È cambiato tutto, mi sento un altro. Siamo davvero esseri stupendi”.
Ecco che cos’è un clown. Un incontro molto speciale, uno specchio per vedersi totalmente diversi, una breccia da cui scorgere una vita nuova”… Tuttavia, mio malgrado, sono costretta a ribadire qui, come ho già fatto in molte occasioni, che bisogna essere cauti, che l’entusiasmo può giocare brutti scherzi e impedire di guardare ai fenomeni con la necessaria obiettività.
In primis, il clowning non deve essere considerato altro che una fra le tante possibili tecniche artistiche che aiutano a migliorare la comunicazione e non come una specie di capacità sciamanica. Il naso rosso non ha alcun potere di per sé perché non è un oggetto magico e indossarlo non produce alcun beneficio se non c’è consapevolezza del processo artistico che conduce l’attore ad impersonare il clown.
Qualsiasi tecnica necessita di un lungo percorso di formazione e apprendimento: così, un clown impreparato sul piano artistico diventa patetico, come ben sottolinea Dario Fo.
In secondo luogo il clowning usato in situazioni di sofferenza, disagio o emergenza, è un’arma potenzialmente pericolosa se messa nelle mani sbagliate.
Il clown potrebbe essere, infatti, una persona speciale, come sottolinea la dottoressa Peruzzi, ma potrebbe anche fare disastri sul piano emotivo e psicologico. Non tutti i clown sono così stupendi! E lo posso dire dopo anni di frequentazione di clown di ogni genere, dai giovani tramp fino ai grandi del circo. Alcuni sono splendidi attori, completamente incapaci di guardare oltre il loro naso rosso, chiusi in un sano narcisismo, che occorre spesso a chi calca le scene. Altri sono molto impegnati nell’azione sociale ma ignari delle istanze personali che li portano ad occuparsi degli altri e ancor meno consapevoli di non sapere fare i clown. Altri ancora, infine, sono riusciti a bilanciare le competenze artistiche e le motivazioni altruistiche, consapevoli di non avere nessuna bacchetta magica e mantenendosi in una posizione di giusta distanza rispettosa dell’altro.
Dunque non sempre l’incontro con un clown ha gli effetti meravigliosi descritti sopra! Quando, tuttavia, il clown è capace, può fare molto per aiutare gli altri, anche se ho molte perplessità ad accettare la cosiddetta clown-terapia. Essa viene, infatti, identificata con la terapia della risata o del sorriso, o ancora geloterapia, che dir si voglia. Mi sono espressa anche a questo proposito, in varie circostanze: è mia opinione, da un lato, che l’intervento del clown non sia basato unicamente sulla comicità e, dall’altro, che sia azzardato parlare di terapia.
Bisogna, in prima istanza, riconoscere che l’arte del clown è complessa e non suscita nello spettatore solo risate. Basti pensare a grandi clown, come Charlot o Bip, per comprendere che si tratta di straordinari “sollecitatori di emozioni” e non di comici tout court. Perciò, se di terapia si trattasse, direi che la potremmo definire “terapia delle emozioni”. Ma, a mio avviso, è prematuro definire l’intervento del clown come terapia. Le terapie riconosciute dalla scienza, infatti, sono basate su protocolli scientifici sperimentati a lungo e poggiano su una casistica che consente di definire in quali patologie siano adatte e in quali no. Inoltre, siano esse farmacologiche o psicologiche, hanno sempre alcune controindicazioni, come si può vedere dalle istruzioni dei medicinali. Solo i preparati di erboristeria non contengono neppure le istruzioni! E noi non vorremmo essere vittime della stessa leggerezza che spesso caratterizza quelle che vengono definite “terapie alternative”.
Non mi pare, quindi, di poter accettare il clowning come una forma di terapia: d’altra parte non vedo questo come un limite. Si tratta, infatti, di un lavoro di “cura” in senso lato, che è importante quanto e, forse più, di qualsiasi terapia riconosciuta. È solo una questione di chiarezza! Costruire una figura professionale che utilizzi nel lavoro di cura l’arte del clown non è un compito meno complesso di chi pensa di formare dei terapeuti.
È da tempo che sostengo la mia battaglia per una preparazione adeguata dei “clown al servizio della persona” e devo riconoscere che in molti si sono mossi, insieme a me, per offrire opportunità formative: dopo il primo esperimento dei corsi di alta formazione di Bologna, c’è stato, infatti, il master diretto dalla prof.ssa Spadolini a Roma e il corso della Regione Toscana.
Ancora, tuttavia, ci sono poche ricerche che ci aiutino a far luce su un fenomeno che si delinea come sempre più complesso, man mano che si procede con le esperienze. Molti, troppi forse, desiderano indossare il naso rosso e andare per le vie del mondo o nei luoghi di sofferenza a “portare un sorriso”.
Solo in Italia ci sono circa cinquemila volontari clown negli ospedali! Purtroppo ciò comporta che non tutti quelli che si improvvisano clown sanno quello che fanno. Accanto a coloro che hanno formazione e capacità adeguate ci sono tanti che basano il loro lavoro solo sulla buona volontà e che spesso creano situazioni difficili invece di portare aiuto: la resistenza di alcuni medici è dovuta in molti casi a brutte esperienze! Come psicologa ritengo, quindi, che non possiamo più esimerci dal considerare il fenomeno in tutta la sua portata e che dobbiamo tentare di dare linee guida precise a quella che si sta profilando come una figura professionale socio-sanitaria.
Ben vengano quindi tutte le testimonianze e le riflessioni di chi ha sperimentato le gioie e le difficoltà di questo “strano modo di aiutare gli altri”.
Il libro di Simionato dimostra quello che riesce a fare l’entusiasmo dei giovani: oltre alle foto ci sono le considerazioni dei clown, le poesie e i disegni a commuoverci e a farci riflettere sulle potenzialità della maschera povera del pagliaccio. Dove la gente soffre o è chiusa in un pericoloso isolamento la sua capacità di ridere di se stesso e della vita (“Gente pronta all’ironia, gente che malgrado tutto ha ancora la forza di ridere alla vita”, scrive il dottor Solletico!), può fungere da specchio liberatore.
La storia di Chiara, la sua iniziale resistenza, il suo graduale aprirsi al gioco e al dialogo, sono un esempio di come l’ascolto, la capacità creativa (…“Certi letti han voglia di correre. Come certi sogni, come certi desideri, come certe vite”…), la perseveranza anche di fronte alle frustrazioni e la forza di ripensare criticamente al proprio lavoro (“Noi non facciamo miracoli, ma aiutiamo a viverli”), siano ingredienti fondamentali del lavoro del clown.
Il libro vuol essere anche una testimonianza di tanti anni di fatica non solo in Italia ma anche in paesi difficili come la Palestina e l’India; di incontri con clown che condividono sogni grandi come Patch o Miloud e di amicizie nate proprio dal desiderio di cambiare non solo gli ospedali ma…il mondo intero.
Why not? Si chiede il dottor Arnaldi: perché non rispondere al male, al dolore all’indifferenza, con l’impegno personale (“Io e non gli altri”)? Un principio importante che sembra oggi in disuso, sostituito da un più facile “Perché proprio io?”.
In conclusione, quindi, il libro è un richiamo e un monito a tanti giovani a ritrovare la voglia di spendersi per gli altri, a non perdersi dietro futilità o peggio dietro a pericolosi miti, a vivere la dimensione di gruppo come una grande opportunità di dare maggior forza alle proprie idee e ai propri ideali.
Se, dunque, da vecchia e pedante ricercatrice ho voluto e dovuto fare la parte dell’avvocato del diavolo, vorrei concludere con un grazie a tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione di questo volume per aver lasciato trasparire con tanta gioiosa fiducia, il loro entusiasmo per la vita.
Solo un ultimo breve richiamo a tenere ben saldi i piedi per terra, a vedere anche quello che non va: nella ricerca occorre avere sempre un’”ipotesi nulla” con cui confrontarsi. Se è vero che storie come quella di Chiara non possono che commuovere, è anche vero che ci sono tanti altri che rifiutano i clown e ciò che rappresentano, soprattutto quando i clown non hanno la delicatezza del dottor Cirillo! Per entrare in contatto con la sofferenza bisogna prima di tutto avere “buone spalle”, cioè una preparazione personale adeguata a non soccombere insieme a chi soffre.
Sono, tuttavia, sicura che con una buona preparazione psico-pedagogica si possa diventare maestri di clowning come si diventa maestri di tennis. Credo al fatto che si possa far vivere ad altri la stessa esperienza e far ritrovare quella filosofia del clown che si può riassumere così: non mi vergogno di me stesso, so perdere, so cadere perché mi rialzo, riesco a risolvere i conflitti buttandola sul ridere perché ho una forte autoironia.
Questo può avere un grande impatto in una società dove le costanti sono la paura di cadere, la vergogna di se stessi come inadeguati alla competizione e il terrore del fallimento. Il clown è il rovescio di questa condizione, e accettare questo rovescio vuol dire anche riuscire a superare momenti di fragilità come la malattia o la povertà, ritrovando la voglia di rialzarsi.
di Alessandra Farneti Docente di Psicologia dello sviluppo presso la Facoltà di Scienze della Formazione della libera Università di Bolzano
Ho appena finito il libro dei Dottor Clo
Ho appena finito il libro dei Dottor Clown mi è piaciuto tanto!!
E' vivo...pulsante...delicato...divertente!!
Mi ha fatto battere forte il cuore!!
GRAZIE!!